Crocifissione e morte di Cristo

Lugubre oltre ogni credere e doloroso argomento è quello, ornatissimi, su cui, se pur la mente alle labbra somministrerà le parole, se pure il mio dire interrotto non verrà dai sospiri, io debbo in questa sera ferale aver l’incarico di ragionarvi. Or più non fa d’uopo o la finezza ricercar de’concetti o l’ardente entusiasmo delle parole o la energica eloquenza del dire, onde in cuori sensibili i sospiri destare e gli affetti verso il miserabile oggetto che lo spettacolo v’offre, il più degno della commiserazione vostra e del vostro dolore. Il solo rimirar quella croce, su cui svenata cader deve la vittima divina, il solo vedere quel sangue, che stilla tuttora dal corpo dell’innocentissimo agnello, già vi presenta l’eccesso che per nostra mano si compie, già la storia ferale vi anticipa che, sulla traccia evangelica, io son per narrarvi.

Ma pria di rivolgervi a contemplare, o signori, il funesto luttuoso spettacolo del cruento sacrifico della vittima immacolata, pria di rimirar con attonite pupille il ferale eccesso che il colmo pose alla empietà de’ giudei, gettar fa d’uopo lo sguardo sopra la gloria infinita che al crocefisso divin Redentore ridondò da quel monte medesimo che il teatro fu de’ suoi patimenti, da quel patibolo istesso che l’ara fu del suo sacrificio, da que’ chiodi medesimi che i barbari stromenti furono del giudaico furore. «Dicite, lo esclamò già il profeta reale, dicite in natio-nibus quia regnavit Dominus a ligno». Rasserenate il volto per poco, onde farvi spettatori dell’immortale trionfo del Salvatore divino, per poi richiamare il pianto sul ciglio e i sospiri sul labbro, nel darvi a contemplare l’ultima scena ferale della orribil tragedia della divina Passione.

Ella è dottrina certissima e dalla ragion confermata e dalla fede (dottrina che la infinita perfezione ad un tempo e la provvidenza comprova dell’Esser divino) che Dio nulla oprò mai, né oprar mai potrà nulla che ad un sol fine diretto non sia, a quello cioè della sua gloria. Poiché, essendo questo di tutti i fini il più perfetto, come quello che alla gloria dirigesi dell’ottimo fra tutti gli esseri, fa d’uopo che questo ente medesimo solo ad un tal fine diriga le sue perfettissime operazioni. Che se talvolta, o dall’amore ad amar gli uomini è mosso, o dalla clemenza a perdonare è portato, o dalla giustizia a punire è costretto, e l’amore e la clemenza e la giustizia tutte a quel fine condur la increata sapienza, che degno è più d’ogni altro della infinita sua perfezione.

Quindi è che, se Dio l’eterea volta distese, ciò fu per sua gloria; e se le fisse insieme e le erranti faci scintillar fece, ciò fu per sua gloria; e se la terra ammantò di piante e di fiori, se i pesci guizzar fece nell’acqua, se nuotar gli augelli nell’aria, ciò fu per sua gloria; e per sua gloria fu pure se l’uomo trasse dal nulla, quell’ente di ragione dotato che, dimenticandosi del suo Facitore, servì alla sua gloria; che, il suo Signore oltraggiando, servì alla sua gloria; che, ricusando perfino di riconoscere del suo Dio la esistenza, servì pure alla sua gloria.

Or, se tutto ciò oprò Dio per suo esaltamento, e se gloria somma diffatto risultonne alla sua perfettissima essenza, chi dubitar può che dalla umiliazione medesima dell’unigenito divin Figlio incarnato gloria infinita non risultasse all’onnipotente Signore? Gloria tanto più grande, quanto più meravigliosa fu l’opra della divina Incarnazione; tanto più sublime, quanto maggiore l’avvilimento fu dell’Uom Dio; tanto al divin cospetto più nobile, quanto fu agli occhi dell’uomo la confusione più grande.

Come allorquando, al cenno della destra vendicatrice di Dio, sbucati dal cupo delle lor tane, orridi velenosi serpenti, mossi alla strage dell’infedele Israello, allorquando di freddi cadaveri ad un tempo e di rettili stizzosi e crudeli coperti si videro i campi di Edom, innalzò Mosè su d’alta trave prodigioso serpente, alla cui vista risanati eran tosto i ravveduti israeliti; così, all’apparir del crocifisso divin Redentore, disparvero tosto quelle colpe che, a guisa di velenosi ser penti, strage facean della perduta umanità e fu compiuto dell’umanato Figlio di Dio. “Sicut lo disse già l’estatico di Patmos Sicut Moyses exaltavit serpentem in deserto, ita exaltari oportet Filius hominis».

Apparve nell’alto la Croce divina, il segno maestoso del trionfo del Redentore, sfavillò in mezzo del cielo il gran carattere di salvezza; il quale, riconosciuto ed accolto da turbe innumerevoli di fedeli, fu eletto a vessillo da que’ generosi soldati di Cristo, che impazienti di combattere e sicuri nella certa speranza di gloriosa vittoria, ad affrontar valorosamente sen corsero la superba oste infernale. E qual dagli aculei, qual dai flagelli, qual da’ ferrei uncini straziato, qual sotto cumulo spaventoso di pietre sepolto, qual trafitto da lance, qual dalle fiamme consunto, quale in preda gettato dell’onde, sciolse, a scorno della morte e dell’inferno, il canto giulivo di gloria.

E dove si udì dal profondo degli antri il mesto gemito de’ penitenti, dove si vider le deserte arene rosseggiar del sangue che dal proprio corpo trasser con fiero strazio gli anacoreti innocenti, dove sulla tacita cima di solitarie rupi gìà infuocati sospiri si udiron di coloro che, abbandonate le paterne dovizie, solo nell’amor della Croce trovaron pace e riposo. «Egressi, il disse bene a ragione il profeta Abacucco, egressi sunt in salutem cum Christo suo». A franger le dure ritorte della colpa, a disarmare il braccio terribile della morte, a riportar compiuto il trionfo sopra l’infernale tiranno, non d’altra spada fu d’uopo che della Croce. «Domuit, son di Leo le parole, domuit orbem non ferro sed ligno».

Ma quai supplizi atrocissimi e quali acerbissimi spasimi non costò al divin Redentore una sì gloriosa vittoria! Voi già lo vedeste agonizzante nell’orto, legato da’ manigoldi con funi, condotto qual malfattore innanzi a giudici sciagurati e malvagi; voi lo vedeste percosso da schiaffi, imbrattato da sputi, flagellato e grondante sangue da ogni parte del suo corpo divino; voi lo vedeste vestito di lurida porpora, beffeggiato e deriso qual re da scherno e da burla, coronato da un serto pungente di acutissime spine. Ma ciò ancora fu poco. Dovè l’in-nocentissimo Nazareno al pesante incarico soggiacer della croce; dovè condursi in mezzo alle affollate turbe malvage al monte infame del Golgota; dovè finalmente, sulla croce confisso, esser sollevato alla vista di scellerata ciurmaglia, pender per tre ore da quel legno ignominioso e ferale, spasimare, agonizzare, spirare.

Or sì, date pur sfogo alla compassione vostra, che più niun vel contrasta. Mirate come a colpi di grave martello gli trapassan que’ carnefici i piedi, e, dell’un braccio i contratti nervi stirando, e disnodando dell’altro le giunture, la mani esse pure conficcano con acuti chiodi alla croce; e quindi, movendo con funi il doloroso patibile, lo sollevano, lo trabalzano, lo inalberano e, nello scuotersi delle fibre convulse e nel trapidar del petto anelante e nel l’allargarsi delle ferite, giù lo piombano nella fossa che tosto rosseggiar si vede del sangue che a rivi, scorre dalle vene dilacerate del Nazareno Signore.

Sconsigliati giudei! Il Giusto che, distempratesi in soave rugiada, ci piovver le nubi, quegli che, simboleggiato nel vago fiore di lesse, produsse benefico il suolo, quegli che, per bocca de’ vostri profeti, la espettazion chiamaste de’ popoli e il Principe de’ secoli futuri, già lo vedete. E fu per questo che il suo venire affrettaste co’ voti e fu per questo che per quaranta secoli, sospirosi, il chiamaste? Qual luttuoso spettacolo, o cristiani! Già ricusa il sole di sostener questa vista, e sembra che al mondo nasconder voglia l’eccesso fatale che sul Calvario si compie. Ma invano. Lo stesso divin Redentore, tutte raccogliendo dalle spossate sue membra le languide forze, all’universo lo annunzia: Consummatum est!
Io non ho cuor di più dire, e voi sapete che di più egli non disse. Gesù, il Salvator nostro… l’unigenito Figlio di Dio… è già pallido in volto… è senza spirito. A questa vista, quasi colpita da folgore, tutta da alto orrore compresa e muta, per poco ristassi la universale natura. Ma già nega la terra di sostener questo eccesso e traballa; s’urtano i monti l’un l’altro e spalancano le loro caverne; restituiscon l’ossa rivestite di carne le tombe e fendono le loro pietre; il mare oltrepassa, mugghiando, i suoi limiti; si divide il velo del tempio, e tutta di tristezza si veste e tutta piange la desolata natura la morte del suo divin Facitore. O Gesù! Già vi conoscono gli esseri insensati e vi piangono: e quando fia che vi conosca l’uom ragionevole e si ravvegga?

Ah! che ancor egli ormai regger non può alla vista di quelle colpe che di sì lugubre spettacolo furon cagione. Detestale un dei ladroni che gli sta al fianco; i crocifissori stessi detestanle, che percuotendosi il petto discendon dal monte.

«Percutientes pectora sua revertebantur».
Detestiamole noi pure, religiosi signori, ravvisiamo in quel Corpo divino le ferite che le nostre mani vi aprirono, né più sia che incrudelir dobbiamo contro il morto Gesù, né più sia che rinnovar dobbiam le sue piaghe, inasprir le sue pene e squarciare quel petto che arse di tanto amore per noi.


Giacomo Leopardi – Scritto e recitato nella congregazione dei Nobili in San Vita di Recanati 1813

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